Una risposta su Jean Jacques Rousseau

 

 

GIOVANNA REZZONI & GIOVANNI ROSSI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XX – 21 ottobre 2023.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE]

 

Jean-Jacques Rousseau: è possibile una diagnosi postuma “sulle carte” del suo disturbo mentale? Una quindicina d’anni fa ricevemmo una richiesta in tal senso, cui rispondemmo che era opinione degli psichiatri aderenti alla nostra società scientifica e linea di principio della società stessa il rifiuto di applicare le categorie diagnostiche correnti alle descrizioni del comportamento e alle deduzioni sull’ideazione di una persona che non si può conoscere e sottoporre a vaglio clinico. In questi giorni abbiamo ricevuto una nuova richiesta formulata in tal modo: “Alla luce dei nuovi studi sui documenti e sugli scritti autobiografici del filosofo e scrittore ginevrino che ha giganteggiato tra idee illuministiche e naturalismo già quasi romantico, possiamo dare un nome alla sua follia?”

Gli argomenti e i fatti biografici citati dal nostro studioso di Rousseau sono senz’altro stimolanti e affascinanti, soprattutto per ciò che concerne la conoscenza della personalità – intesa nel senso più generale del termine – e dell’avventurosa vita di un personaggio che ha avuto una grande influenza sulla cultura europea, ma una diagnosi non solo non è possibile, non è nemmeno opportuna, a nostro avviso.

Diagnosticare, da dia-gnosis, vuol dire passare attraverso segni e sintomi che indicano la presenza di un disturbo per giungere, con la conoscenza, alla patologia che li provoca; seppure non vogliamo giungere al cervello della persona e ci accontentiamo di fermarci alla sua espressione che chiamiamo mente, a questa dimensione mentale nella sua attualità affettiva, emotiva, cognitiva e comunicativa dobbiamo riferirci necessariamente per poter valutare. Ad esempio, nella semeiotica di un delirio, stabilita la forma strutturata o destrutturata, ciò che più conta è la distanza che il soggetto ha da quella produzione della sua mente: se fa tutt’uno col pensiero delirante come fosse un’evidenza empirica di realtà, se è disposto ad accettare almeno la richiesta di illustrarne il senso o può addirittura giungere ad accantonarlo, pur ritenendolo giusto, per motivi di convenienza suggeriti dallo psichiatra.

Basterebbe solo questo esempio per far capire che, pur volendo rinunciare all’indagine sull’attività fisiologica del cervello mediante risonanza magnetica funzionale, è necessario studiare una persona interagendo e valutando secondo principi, criteri e parametri psichiatrici tutti gli aspetti emergenti e rilevanti, per poter orientare una diagnosi. Dunque, una vera diagnosi “sulle carte” non è possibile.

Ma abbiamo detto che una diagnosi non è opportuna. Non si tratta, a nostro avviso, di un argomento irrilevante: la diagnosi è un atto medico finalizzato alla cura di una persona ammalata, e non è una forma di classificazione delle persone, tantomeno l’attribuzione a personaggi storici di uno stereotipo, di un cliché o di uno stigma ad uso dei biografi. Con diversa considerazione possiamo stimare la preoccupazione di uno studioso che, volendo approfondire aspetti della vita che possono aver influenzato l’opera di un personaggio studiato, sia interessato a conoscere anche le malattie di cui era affetto.

Queste considerazioni non implicano che ci sottraiamo all’obbligo di cortesia di commentare un materiale così interessante, quale quello proposto dal nostro interlocutore.

 

Cosa si può dire di appropriato e plausibile senza pretendere di diagnosticare la parafilia di Rousseau? Prendiamo le mosse da una lunga citazione tratta dal suo saggio autobiografico Le confessioni, che contiene un dettagliato riferimento a quella esperienza infantile cui vari autori si riferiscono come a “una violenza fisica e psicologica subita da una donna”. È necessario premettere che, morta sua madre per una complicanza infettiva del parto col quale era venuto alla luce, fu allevato per i primi anni dal padre, che lo affidò poi al cognato Gabriel Bernard, il quale, a sua volta, lo affidò al pastore di Bossey, Lambercier, e alla sua figlia trentenne. Ecco le parole di Rousseau:

 

Come nutriva per noi l’affetto di una madre, la signorina Lambercier ne esercitava anche l’autorità, che la spingeva talvolta fino al punto di infliggerci il castigo che si dà ai bambini, quando l’avevamo meritato. Per molto tempo si limitò alla minaccia, e questa minaccia di un castigo per me del tutto nuovo mi spaventava moltissimo; ma poi che l’ebbi subito, lo trovai meno terribile, in realtà, di quanto me l’ero aspettato, e ancora più strano è come quel castigo mi affezionasse anche più a colei che me l’aveva inflitto. Occorreva veramente tutta la schiettezza di questo affetto e tutta la mia naturale dolcezza, per impedirmi di cercare di meritarmi nuovamente un trattamento del genere: perché avevo trovato nel dolore, nella vergogna stessa, una mescolanza di sensualità che mi aveva lasciato più desiderio che timore di subirlo una volta ancora dalla stessa mano. È pur vero che, insinuandosi senza dubbio in tutto questo qualche precoce istinto del sesso, il medesimo castigo non mi sarebbe parso affatto piacevole, se a infliggerlo fosse stato il fratello di lei. Ma, dato il suo umore, una tale sostituzione non era da temersi; e se mi astenevo dal meritare il castigo, era soltanto per la paura di scontentare la signorina Lambercier. Tale è in me, difatti, l’impero della benevolenza, anche di quella scaturita dai sensi, ch’essa impose sempre loro la legge del mio cuore. La recidiva, che allontanavo senza temerla, arrivò senza mia colpa, vale a dire senza ch’io lo volessi, e ne approfittai, posso dire, in tranquillità di coscienza. Ma quella seconda volta fu anche l’ultima: la signorina Lambercier, essendosi indubbiamente resa conto, da qualche indizio, che il castigo non otteneva il suo scopo, dichiarò di rinunciarvi e che l’affaticava troppo. Avevamo dormito fino a quel momento nella sua camera, e d’inverno, qualche volta, perfino nel suo stesso letto. Due giorni dopo ci sistemarono in un’altra stanza; e da quel momento godetti il privilegio, al quale avrei volentieri rinunciato, di essere trattato da lei come un ragazzo maturo. Chi crederebbe che quel castigo da bambino, ricevuto a otto anni per mano di una donna di trenta, abbia potuto determinare i miei gusti, i miei desideri, le mie passioni, la mia personalità per il resto della vita, e precisamente nel senso opposto a quello che sarebbe dovuto derivarne naturalmente? […].

Con un sangue che ardeva di sensualità pressoché dalla nascita, mi conservai puro da ogni sozzura fino all’età in cui si sviluppano i temperamenti più freddi e più tardivi. A lungo tormentato senza scoprirne il motivo, divoravo con gli occhi ardenti le belle donne; la mia immaginazione me le richiamava senza tregua, esclusivamente per farle agire a modo mio, e per farne altrettante signorine Lambercier. Anche dopo l’età del celibato, quel gusto bizzarro, sempre persistente e spinto fino alla depravazione, fino alla follia, mi ha conservati onesti i costumi che sembrerebbe dovesse invece minacciare[1].

 

Questo testo non è un semplice racconto di quanto accaduto nell’infanzia; anzi, è tutt’altro che un resoconto di fatti: non ci dice né quale trasgressione o marachella abbia compiuto, né in cosa sia consistita la punizione, ma ci propone una memoria di impronta psicologica, sviluppata come un’interpretazione che attribuisce a questa esperienza precoce la causa del suo modo di sentire da adulto, del suo cercare piacere nel sottomettersi a una donna e nel riceverne sofferenza.

Anche se, su questa base, si è sempre scritto e discusso del “masochismo” di Rousseau, è importante notare come lui sottolinei che “quel gusto bizzarro, sempre persistente e spinto fino alla depravazione” sia rimasto prevalentemente contenuto nella dimensione immaginaria, conservandogli così “onesti i costumi che sembrerebbe dovesse invece minacciare”. Il masochismo, inteso in senso proprio, è annoverato fra le parafilie e comporta un’alterazione della psicofisiologia sessuale consistente nel non provare piacere per gli stimoli erotici fisiologici ma quasi esclusivamente attraverso un’esperienza di dolore fisico e umiliazione; questo nucleo patologico può influenzare in modo più o meno marcato lo stile di personalità e l’atteggiamento nelle relazioni col prossimo. La diagnosi di masochismo come disturbo mentale presuppone, fra l’altro, la valutazione di condotte sessuali messe in atto dal soggetto, ma, se è vero che Rousseau, come scrive, aveva mantenuto “onesti i costumi”, viene meno un importante elemento di giudizio.

In realtà, in molte biografie non si distingue tra la diagnosi psichiatrica della parafilia e il rilievo di quel “gusto bizzarro”, di quel particolare modo di sentire storicamente riferito dal barone Leopold von Sacher-Masoch, che Richard von Krafft-Ebing assunse come modello di una “deviazione dell’istinto sessuale”, coniando nel 1869 il termine “Masochismus”, da cui l’italiano “masochismo”[2]. Non sapremo mai se quella esperienza precoce sia stata un’occasione rivelatrice di un fenotipo cerebrale responsabile della parafilia o sia stata solo un episodio favorente l’espressione, attraverso l’interpretazione cognitiva, di una predisposizione dovuta a un assetto neurofunzionale causato da qualche alterazione in corso di sviluppo, che ha impedito la completa differenziazione necessaria alla maturazione dell’istinto sessuale fisiologico.

 

Cosa si può ragionevolmente dedurre da alcuni comportamenti bene documentati? Da adulto, quando già era considerato folle da alcuni per le sue eccentricità ed eretico per i suoi scritti dai prelati svizzeri che ne avevano chiesto la proscrizione, Rousseau aveva attratto l’attenzione del filosofo empirista scozzese David Hume, a quel tempo segretario dell’ambasciatore britannico a Parigi. Hume, pur non conoscendolo personalmente, gli scrisse una lettera per invitarlo ad andare in Inghilterra, dove avrebbe avuto – gli assicurava – protezione da qualsiasi persecuzione “non solo per lo spirito tollerante delle nostre leggi, ma per il rispetto che ogni Inglese ha per la vostra persona”[3].

Dopo circa un mese, Rousseau era pronto per accettare l’invito di Hume, e in proposito leggiamo: “Il governo francese gli rilasciò un passaporto per venire a Parigi, dove Hume lo incontrò per la prima volta e gli si affezionò quasi subito”[4]. Forse anche per la sua teatralità istrionica che contraddiceva la frequente dichiarazione di amare la solitudine e la quiete, la popolarità di cui godeva lo scrittore-filosofo nella capitale francese era straordinaria, tanto che a ogni angolo di strada si sentiva parlare del ritorno dell’esule. Scrive Hume: “È impossibile esprimere o immaginare l’entusiasmo di questa nazione a favore di Rousseau… Nessuna persona ha mai avuto tanta attenzione… Voltaire e tutti gli altri sono praticamente eclissati”[5].

Jean-Jacques Rousseau fa il suo ingresso a Parigi il 17 dicembre del 1765; il 18 di dicembre già si parla della sua passeggiata in costume armeno tradizionale nei giardini Luxembourg e poi, ogni giorno, del suo passeggio a un’ora fissa nei boulevard intorno alla sua residenza. Scrive al suo amico de Luze: “Vorrei venire a trovarvi ma, per non sfoggiare il mio berretto armeno per strada, sono costretto a chiedere che veniate voi da me”[6].

Se dobbiamo prendere sul serio le parole che rivolge all’amico, possiamo dedurre che non sente quel suo particolare modo di abbigliarsi come un’esibizione teatrale volta ad attrarre l’attenzione o come un travestimento per non farsi riconoscere, ma come una necessità psicologica: un comportamento di cui non può fare a meno.

Di passaggio notiamo che il travestitismo era annoverato fra le psicopatie dalla nosografia psichiatrica classica, ma non pochi contemporanei consideravano il suo abbigliamento parte di una costellazione di comportamenti bizzarri esibiti in pubblico, fra cui spicca il perfetto accordo tra il suo cane Sultan e il suo gatto, che prendevano fraternamente i pasti insieme. Ma ciò che molti ritenevano segno di squilibrio mentale era il suo lamentarsi di persecutori e nemici, senza però manifestare sentimenti ostili nei loro confronti: sembrava a costoro che i suoi persecutori fossero immaginari.

Negli anni precedenti all’incontro con Hume, Rousseau aveva realmente subito una persecuzione da parte di autorità religiose e civili. L’Emilio, con il suo attacco a tutto il cristianesimo, indusse l’arcivescovo di Parigi a redigere un ponderoso mandement di condanna, che giunse in Parlamento e indusse il Consiglio di Stato a disporre l’arresto di Rousseau, al quale non restò altra scelta che fuggire da Parigi, mentre tutte le copie del libro venivano strappate e bruciate pubblicamente secondo la sentenza. Riparò nel cantone di Berna, presso il suo amico Roguin, ma dopo circa un mese il consiglio dei reggenti della città condannò l’Emilio e Il contratto sociale al rogo e dispose l’arresto di Rousseau nel territorio della Repubblica di Ginevra.

Il profondo turbamento causato dalla necessità di dover ancora fuggire – oggi parleremmo di reazione da stress cronico – era accompagnato dal dispiacere di essere disprezzato dai suoi correligionari: “Era la condanna calvinista a Emile, più di quella cattolica, che lo aveva fatto soffrire”[7]. Si nascose, allora, sull’isolotto di Saint-Pierre, al centro del lago di Bienne, dove gli avevano detto che non sarebbe stato mai raggiunto dalla giustizia. Trascorse lì un periodo di tranquillità, come lui stesso narra, andando spesso a sdraiarsi in barca cullato dalle onde con gli occhi rivolti al cielo “immerso in mille fantasie deliziose”[8]. Ma, circa un mese dopo l’arrivo, fu scoperto e gli fu ingiunto di lasciare il cantone entro ventiquattro ore.

Dunque, una persecuzione l’aveva realmente subita. E nemici ne aveva avuti tanti. Celebre l’inimicizia con Voltaire.

Se Voltaire si commosse per la sorte del suo rivale, non fu tenero nel giudizio sull’Emilio: “È un guazzabuglio in quattro volumi scritto da una balia stupida, con quaranta pagine contro il cristianesimo, tra le più audaci che si conoscano… Dice molte cose offensive contro i filosofi come contro Gesù Cristo, ma i filosofi saranno più indulgenti dei preti”[9].

Si legge: “La lunga lite tra Voltaire e Rousseau è una delle pagine più sgradevoli dell’era illuministica”[10]. Dai documenti si deduce che, col passare del tempo e col peggiorare di alcuni suoi mali fisici, ai quali è stata data spesso l’etichetta di manifestazioni psicosomatiche, gli pesava sempre più l’ostilità e l’avversione degli intellettuali che aveva più stimato, e non riusciva a darsi pace per l’odio suscitato anche nel popolo dalle sue idee sui principali argomenti della fede.

In effetti, in materia religiosa aveva avuto vari ripensamenti e, in ultima analisi, aveva sempre elaborato una riflessione personale: nato in una famiglia calvinista, si era convertito al cattolicesimo, ma poi era ritornato al calvinismo, dal quale presto era rimasto deluso, e si legge che era poi approdato al deismo, una filosofia religiosa razionalista che riconosce l’esistenza di Dio ma sostituisce la religione con un credo naturale; un approdo che viene però smentito da sue categoriche affermazioni riportate in vari documenti. Ciò che gli pesava era il mancato riconoscimento del suo desiderio di ricerca della verità, delle sue buone intenzioni: diceva di voler essere corretto per essere in errore e non condannato come un malfattore perché la sua speculazione lo aveva portato alle conclusioni esposte nei suoi scritti.

All’epoca dell’incontro con Hume, e prima del suo trasferimento in Inghilterra, i tentativi di captatio benevolentiae attraverso la narrazione delle sue tribolazioni presentate come ingiusta sventura di un innocente pronto ad accettare il ruolo di vittima, accanto all’eccentricità del suo comportamento sociale, avevano creato nell’opinione pubblica europea una miscela esilarante che aveva indotto autori di satire, parodie e pamphlet a produrre divertenti storielle che circolavano a stampa dappertutto. Fu proprio questo clima a ispirare Horace Walpole, amico di Hume, a fare una burla a Rousseau.

Walpole partecipava con Diderot e Grimm ai pranzi di Madame Geoffrin, dove si diceva che Rousseau alternava un’ingenua credulità da beota a un’irriducibile scetticismo sospettoso e malfidato; nessuno lo vedeva come un perseguitato, perché era noto che godeva della protezione di potenti e riceveva rendite da suoi ricchi ammiratori, inoltre si sapeva del suo masochismo e si riteneva che i mali di cui si lamentava pubblicamente fossero da lui cercati e desiderati. Horace Walpole scrisse una lettera a Rousseau fingendo di essere il re di Prussia Federico il Grande:

 

Il Re di Prussia a M. Rousseau

Mio caro Jean-Jacques, Voi avete rinunciato a Ginevra, vostra patria; siete stato espulso dalla Svizzera, paese che tanto avete elogiato nei vostri scritti, e la Francia ha emesso un mandato di cattura contro di Voi. Venite da me, allora.

[…] E se insistete nel lambiccarvi il cervello per trovare nuove disgrazie, scegliete pure a vostro talento; io sono re e posso procurarvi qualsiasi cosa che soddisfi i vostri desideri; e – come certamente non accadrà finché resterete fra i vostri nemici – cesserò di perseguitarvi quando voi cesserete di trovare la vostra gloria nell’essere perseguitato.

Il vostro buon amico,

FEDERICO[11]

 

 

 

Non è noto se Hume abbia partecipato alla stesura della lettera o si sia solo limitato ad approvare la burla, ma è certo che questo episodio contribuirà a minare la sua amicizia con Rousseau che, durante il soggiorno in Inghilterra, diventò sempre più sospettoso. La reazione estrema dell’autore dell’Emilio si ebbe quattro mesi dopo, quando il giornale St. James Chronicle pubblicò in inglese e in francese il testo della falsa lettera di Federico il Grande a Rousseau: oltre a montare su tutte le furie per il fatto, vide in Hume un nemico, perché il direttore del giornale era un vecchio amico del filosofo britannico. Solo in estate, Walpole scrisse a Hume commentando la lettera e assumendosi la responsabilità della burla, in un testo che non ci consente di escludere la partecipazione di Hume alla stesura della missiva, ma in cui si lamenta per la reazione estrema di Rousseau, che scrive al giornale con toni minacciosi, imponendo di fare ammenda nei confronti del re di Prussia, e fa sapere di aver scoperto una congiura contro di lui dei suoi vecchi nemici Voltaire, Diderot e Grimm in combutta con i nuovi nemici inglesi.

In quel periodo Hume scrive a d’Holbach: “Avete ragione voi: Rousseau è un mostro”[12] e poi ritira le parole gentili che aveva speso per lui in precedenza, quando lo aveva ospitato.

Da questo momento in poi il comportamento di Rousseau peggiora in una spirale di sospetti e false conferme di trame ordite ai suoi danni, secondo la tipica struttura dei deliri di persecuzione: si dice certo che i domestici inglesi stiano tentando di avvelenarlo in ogni modo e scrive a Davenport che lo ospitava: “Domani, signore, lascerò la vostra casa… Non sono ignaro dei tranelli che mi stanno preparando, né della mia incapacità di difendermi…”[13].

 

Considerazioni Conclusive. Nella seconda metà del Novecento si era consolidata una categoria nosografica, che figurava ancora in alcuni manuali diagnostici di psichiatria italiani e francesi degli anni Ottanta e Novanta, detta degli “Sviluppi di Personalità”: una personalità psicopatica, in genere così definita in base alla presenza di sintomi di una “devianza” (così erano intesi masochismo, sadismo, feticismo, tossicodipendenza, ecc.), per effetto di esperienze negative intense e ripetute nel corso degli anni, poteva andare incontro a uno “sviluppo patologico”, il più frequente dei quali era lo sviluppo paranoico. Nella paranoia, intesa quale esito di questa evoluzione, l’intelligenza è conservata, eccetto che per un nucleo problematico intorno a cui si sviluppa un delirio, peraltro strutturato e apparentemente razionale, come nella follia ragionante della nosografia francese ottocentesca. Vista anche l’etichetta di masochista, uno psichiatra di trenta-quaranta anni fa avrebbe potuto riscuotere un vasto consenso fra i colleghi proponendo per Jean-Jacques Rousseau la diagnosi di sviluppo di personalità.

Ma, a parte l’obiezione di fondo e di principio che spegne ogni velleità di formulare diagnosi senza paziente, bisogna sottolineare che quella concezione ormai superata si basava sulla convinzione che la forma sintomatologica, ossia l’espressione clinica e con essa il comportamento, costituisse il nucleo identitario della malattia, le cui maggiori cause fossero da ascriversi a processi della mente, quali conflitti inconsci o escalation reattiva ad eventi e circostanze ambientali. In quella visione, tutto lo spettro dei fattori biologici, da quelli genetici ed epigenetici fino alle alterazioni cerebrali indotte da stress, tossici, malattie internistiche e disturbi neurologici, era relegato al ruolo di una generica predisposizione.

Al contrario, sulla base della moderna conoscenza neuroscientifica, si ritiene che in molti disturbi i fattori neurobiologici abbiano un ruolo decisivo nel determinare il tipo di manifestazione clinica della perdita di uno o più equilibri fra attività delle reti cerebrali.

Concludendo, la diagnosi psichiatrica non è intesa da molti come quella internistica una determinazione di “ciò che si ha”, ma una definizione nell’ordine di “chi si è”; e per la psichiatria del secolo scorso forse Rousseau sarebbe stato uno psicopatico andato incontro a uno sviluppo di personalità di tipo paranoico. Ma, se fosse vissuto oggi, con ogni probabilità avremmo studiato lui e il suo cervello, lo avremmo informato dello stato delle cose, gli avremmo dato consigli e prescrizioni, forse migliorando il suo rapporto con i suoi disturbi e, nel rispetto della riservatezza, non avremmo mai comunicato a nessuno una diagnosi quale etichetta di identità. Oggi possiamo dire solo che Rousseau, figlio del suo tempo, era com’era e come ha voluto essere, e non sapremo mai quanto e come la sua personalità e le sue opere siano state influenzate dalla singolarità del suo cervello.

 

Gli autori della nota ringraziano la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giovanna Rezzoni & Giovanni Rossi

BM&L-21 ottobre 2023

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] Jean Jacques Rousseau, Le Confessioni, parte I, libro I, cap. III, citato nel testo del nostro interlocutore.

[2] L’opposto, ossia il piacere erotico nel causare dolore e sofferenza, è stato descritto per la prima volta dal marchese de Sade, da cui il termine “sadismo”. La parola “sadomasochismo” nasce dalla descrizione di coppie impegnate nella pratica reciproca delle due parafilie.

[3] Hendel, Citizen of Geneva, p. 326, cit. in italiano da Will e Ariel Durant in Rousseau e la Rivoluzione, p. 262, Edito-Service S. A., Ginevra, per Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1968.

[4] Will e Ariel Durant in Rousseau e la Rivoluzione, p. 262, op. cit.

[5] John Hill Burton, Life and Correspondence of David Hume, vol II, p. 299, Forgotten Books, Londra 1846.

[6] McDonald F., Jean-Jacques Rousseau, II, p. 166, cit. in Will e Ariel Durant, op. cit., idem.

[7] Will e Ariel Durant in Rousseau e la Rivoluzione, p. 247, op. cit.

[8] Rousseau, Reveries, p. 106 (cfr. The Confessions, p. 308 ed. inglese), cit. in Will e Ariel Durant, op. cit., p. 261.

[9] Will e Ariel Durant in Rousseau e la Rivoluzione, p. 241, op. cit.

[10] Will e Ariel Durant, op. cit., p. 254.

[11] Walpole, Lettera del 12 gennaio 1766, riprodotta in Will e Ariel Durant, op. cit., p. 263.

[12] John Viscount Morley, Rousseau, vol. II, p. 133, Macmillan, Londra 1921.

[13] Josephson, Jean-Jacques Rousseau, p. 471, cit. in Will e Ariel Durant, op. cit., p. 270.